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Un ultimo giro di Valzer sull’orlo dell’Apocalisse: arte, poesia e presagi del presente fra alba del novecento e pandemia

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“Tutti noi auguravamo un altro giorno di vita all’Imperatore, ma era soltanto un giro di valzer in più sull’orlo dell’Apocalisse…”.

La lucida e sconsolata affermazione d’uno degli intellettuali più amari e lungimiranti all’alba del Novecento: il saggista boemo Karl Kraus, che denuncerà gli orrori della prima guerra mondiale e profetizzerà la tragica parabola dell’imminente nazismo nel suo Gli Ultimi Giorni dell’Umanità, si propone come esemplare chiave di lettura d’un universo che vede letteralmente sfaldarsi le sedimentate certezze di prosperità ed evoluzione che avevano cullato l’Europa sino ad allora  e che sembra echeggiare – con sinistra preveggenza – mali e future insidie, non solo pandemiche, del mondo a venire.

Un immenso impero d’oltre quarantasei milioni di abitanti – che si estende senza soluzione di continuità attraverso il continente dall’Adriatico all’Ucraina – con decine d’etnie mal assortite e costrette ad una forzata convivenza nel segno dell’aquila asburgica; una capitale fastosa e risplendente, che occulta sotto la facciata d’ostentata rispettabilità i demoni delle femmes fatales di Klimt e l’erompere delle teorie psicoanalitiche elaborate dal giovane Freud, un anziano monarca sempre più fiaccato da tragedie familiari e rivendicazioni autonomistiche, appena tenute a bada da un’eco superstite di paternalistico prestigio e da una elefantiaca burocrazia che Kafka stigmatizzerà nelle pagine indimenticabili de Il Castello; le tentazioni di egemonia pangermanica d’un ambiguo alleato come il Kaiser Guglielmo II che non esiterà a trascinare l’Austria-Ungheria nell’abisso senza speranza del primo conflitto tecnologico della storia del mondo.

Arte, poesia e letteratura dei paesi coinvolti drammatizzano ed echeggiano, e molto spesso presagiscono, quella tragedia immane, e molti dei giovani intellettuali ed artisti europei – in gran parte interventisti della prima ora  e coinvolti sui campi di battaglia –  scopriranno e denunceranno poi, sulla loro carne, le dementi falsità delle ideologie a sostegno degli Imperi.

L’esteta principe della Vienna della Secessione, Gustav Klimt, maestro d’una fascinosa ritrattistica di sapor  bizantino e decadente, trasformerà sempre più le sue eroine dell’aristocrazia in bambole di carne prigioniere d’una scatola preziosa e soffocante, preannunziando la fatale reificazione di una società di Dei che aveva preteso di sfidare l’Eternità; il sulfureo allievo Egon Schiele dà corpo e linee tormentate a corpi nudi e spigolosi di donne Vampiro e amanti succubi, effigiando bambini scarnificati e senza gioia che negano allo spettatore ogni superstite speranza nella vittoria del domani – il primo morirà di aneurisma cerebrale alla conclusione del conflitto e il secondo sarà vittima, poche settimane prima della fine della guerra, assieme alla giovane moglie Edith incinta di pochi mesi,  dell’epidemia di Spagnola che devasta l’intera Europa  con oltre 50 milioni di vittime – mentre l’altro discepolo visionario di Klimt: Oskar Kokoschka, ferito in battaglia sul fronte orientale e straziato da una sindrome ossessivo-compulsiva, evocherà i fantasmi che lo accompagneranno per l’intera esistenza che gli rimarrà da vivere con colori acidi e tratti serpeggianti e deformi.

In particolare, i corpi di donne scarnificate dalla lussuria, mirabilmente evocate da Schiele – che diverranno esplicita fonte d’ispirazione per il tormentato Francis Bacon – parlando d’una sessualità che lungi dall’esser estasi e sereno appagamento di sensi e d’anima diventa, a tutti gli effetti, affezione patologica e morbo esiziale da strapparsi dalle viscere.

In Italia, il giovane intellettuale Renato Serra, critico e disilluso nei riguardi dei presunti traguardi del conflitto scrive:

la guerra è un fatto, come tanti altri in questo mondo; è enorme, ma è quello solo; accanto agli altri che sono stati e che saranno: non vi aggiunge, non vi toglie nulla. Non cambia nulla, assolutamente, nel mondo. Neanche la letteratura… La guerra non cambia niente. Non migliora, non redime, non cancella; per sé sola. Non fa miracoli. Non paga i debiti, non lava i peccati… la guerra ha rivelato dei soldati, non degli scrittori… Crediamo pure, per un momento, che gli oppressi saranno vendicati e gli oppressori saranno abbassati; l’esito finale sarà tutta la giustizia e il bene possibile su questa terra. Ma non c’è bene che paghi la lacrima pianta invano, il lamento del ferito che è rimasto solo, il dolore del tormentato di cui nessuno ha avuta notizia, il sangue e lo strazio umano che non ha servito a niente. Il bene degli altri , di quelli che restano, non compensa il male, abbandonato senza rimedio nell’eternità….

Serra purtuttavia partirà come ufficiale volontario, ad onta d’ogni amara considerazione e d’ogni naturale avversione al massacro imminente, avvertendo come ineludibile dovere morale il  partecipare con i suoi soldati in un cammino fraterno e quasi penitenziale, senza retorica e senza tentazioni estetizzanti; un percorso anche ideale che illustra nella sua opera miliare: l’Esame di coscienza di un letterato, scritto proprio alla vigilia dell’entrata in guerra dell’Italia, e che lo porterà a morire, a soli trent’anni – combattendo con il proprio reparto nel settore del Podgora, presso Gorizia – il 20 luglio 1915, nella Terza Battaglia dell’Isonzo.

Anche il fante Giuseppe Ungaretti, convinto interventista della prima ora, scoprirà sulla sua pelle l’orrore senza nome e senza giustificazione del conflitto, e nel fango della trincea le sue parole perderanno via via ogni enfasi dannunziana, rarefacendosi e scarnificandosi nello strazio degli assalti suicidi e nell’anelito quasi animale alla vita:

Un’intera nottata/ buttato vicino/ a un compagno/ massacrato/ con la sua bocca/ digrignata/ volta al plenilunio/ con la congestione / delle sue mani/ penetrata/ nel mio silenzio/ho scritto/ lettere piene d’amore/ Non sono mai stato/ tanto/ attaccato alla vita.

Cima Quattro, il 25 dicembre 1915

L’esultanza infantile della vittoria che sembrava dietro l’angolo, la retorica guerriera delle gazzette e dei giornalisti conservatori, al sicuro dalla guerra nelle redazioni delle grandi città, si trasforma sul campo di battaglia in umanissimo e accorato appello alla fraternità, senza bandiere e senza distinzioni:

Di che reggimento siete/ fratelli?/ Parola tremante/ nella notte/ Foglia appena nata/ Nell’aria spasimante/ involontaria rivolta/ dell’uomo presente alla sua/ fragilità/ Fratelli.

Mariano, il 15 luglio 1916

Nell’inferno dell’Altopiano di Asiago, per l’esattezza dell’Altipiano dei Sette Comuni, in prima linea sulle pendici del Monte Zebio, il tenente aiutante maggiore Emilio Lussu, al comando del 151° e 152° fanteria della Brigata Sassari, trasformerà quella discesa nell’Ade in uno dei romanzi più intensi e dolenti, insieme cronaca ferma e denuncia vibrante, di tutta la letteratura del Novecento, in un resoconto che va oltre ogni genere consolidato, col tono piano e dimesso d’una narrazione fatta ai parenti, o agli amici, come commenterà Mario Rigoni Stern:

… I guastatori erano caduti tutti. Ma l’assalto doveva aver luogo egualmente. Il generale era sempre là, come un inquisitore, deciso ad assistere, fino alla fine, al supplizio dei condannati. Mancavano pochi minuti alle 9. Il battaglione era pronto, le baionette innestate. La 9°compagnia era tutta ammassata attorno alla breccia dei guastatori. La 10° veniva subito dopo. Le altre compagnie erano serrate, nella trincea e nei camminamenti e dietro i roccioni che avevamo alle spalle. Non si sentiva un bisbiglio… Gli occhi dei soldati, spalancati, cercavano i nostri occhi. Il capitano era sempre chino sull’orologio e i soldati trovarono solo i miei occhi. Io mi sforzai di sorridere e dissi qualche parola a fior di labbra; ma quegli occhi, pieni di interrogazione e di angoscia, mi sgomentarono… le mitragliatrici nemiche ci attendevano. Appena oltrepassammo una striscia di terreno roccioso ed incominciammo la discesa verso la vallata, scoperti, esse aprirono il fuoco. Le nostre grida furono coperte dalle loro raffiche… i soldati colpiti cadevano pesantemente come se fossero stati precipitati dagli alberi… Contro di noi si sparava a bruciapelo. D’un tratto, gli austriaci cessarono di sparare. Io vidi quelli che ci stavano di fronte, con gli occhi spalancati e con un’espressione di terrore quasi che essi e non noi fossero sotto il fuoco. Uno, che era senza fucile, gridò in italiano: – Basta! Basta! – Basta! – ripeterono gli altri, dai parapetti. Quegli che era senz’armi mi parve un cappellano. – Basta! Bravi soldati. Non fatevi ammazzare così. Noi ci fermammo, un istante. Noi non sparavamo, essi non sparavano. Quegli che sembrava un cappellano, si curvava talmente verso di noi, che, se io avessi teso il braccio, sarei riuscito a toccarlo. Egli aveva gli occhi fissi su di noi. Anch’io lo guardai. Dalla nostra trincea, una voce aspra si levò: – Avanti! Soldati della mia gloriosa divisione. Avanti! Avanti, contro il nemico!

Era il generale Leone…

Ma sarà forse Erich Maria Remarque, autore d’un romanzo che appare ai nostri occhi di contemporanei – insieme – irreparabilmente distante nel Tempo e atrocemente vicino nello Spazio , a saper denunciare con il suo memorabile Niente di nuovo sul Fronte Occidentale gli orrori del passato e le insidie del presente:

Le mani mi si raffreddano, la pelle rabbrividisce, eppure la notte è tiepida. Solo la nebbia è fredda, questa nebbia sinistra che striscia sui morti davanti a noi e succhia loro l’ultimo segreto soffio di vita. Domani saranno lividi e verdi, e il loro sangue ristagnerà nero. E i razzi continuano a salire in cielo e a piovere la loro luce impietosa sul paesaggio pietrificato, pieno di crateri e freddo come un mondo lunare…Passano i giorni, e ogni ora è al tempo stesso inconcepibile e ovvia. Gli attacchi si alternano ai contrattacchi e, poco dopo, sul terreno devastato, tra le trincee, si ammucchiano i morti. I feriti che non sono caduti troppo lontano riusciamo a prenderli quasi tutti. Ma gli altri rimangono a giacere a lungo abbandonati, e li sentiamo morire… E’ autunno. Dei vecchi compagni non siamo più in molti qui. Io sono l’ultimo dei sette arrivati insieme dalla scuola. Tutti parlano di pace e di armistizio. Tutti aspettano… Mi danno due settimane di riposo perché ho respirato un po’ di gas. Siedo in un piccolo giardino, tutto il giorno al sole. L’armistizio arriverà fra poco, ora lo credo anch’io. Ce ne andremo a casa…

Paul Baumer cadde nell’ottobre 1918, in una giornata così calma e silenziosa su tutto il fronte che il bollettino del Comando Supremo si limitava a queste parole: ‘Niente di nuovo sul fronte occidentale’. Era caduto con la testa in avanti e giaceva sulla terra come se dormisse. Quando lo voltarono si capì che non doveva aver sofferto a lungo: il suo volto aveva un’espressione così serena, quasi fosse contento di finire così.

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